Il 20 maggio 1647, il popolo di Palermo insorse e il giorno seguente ottenne l’abolizione dell’odiata gabella sui frutti. L’insurrezione siciliana destò molto scalpore a Napoli, dove cominciò a circolare sempre più insistentemente la domanda: «Siamo noi da meno di Palermo? ». Parole di questo genere e altre espressioni critiche nei confronti del viceré apparvero sui muri della città, soprattutto nei quartieri popolari e nelle vie adiacenti al mercato. All’inizio di luglio, circolò la voce che presto sarebbe stata aumentata l’imposta sul vino; il 7 luglio, pertanto, al mercato scoppiò il primo tumulto, subito guidato da un giovane pescivendolo di 24 (o 27, a seconda delle fonti) anni e di umilissime origini (la madre era una prostituta) chiamato Tommaso Aniello d’Amalfi. I numerosi autori che raccontarono la vicenda di Masaniello lo presentano come una figura autorevole e carismatica, capace di affascinare il popolo napoletano, cui nei primi giorni della ribellione fu imposta una ferrea disciplina.
La rivolta si estese subito all’intera città ed ebbe come protagonisti i cosiddetti lazzari (i più poveri e cenciosi tra la plebe napoletana) e numerosi ragazzini armati di sassi e di bastoni.
Dopo che molte case per la raccolta delle gabelle furono incendiate, la folla assediò la residenza del viceré, che tuttavia riuscì a porsi in salvo. Insieme al viceré, l’altro grande bersaglio dei rivoltosi furono i signori, i nobili che avevano deciso insieme al governatore spagnolo l’imposizione delle gabelle o addirittura traevano vantaggio dalla riscossione di essi .Nei giorni seguenti, moltissimi carcerati furono liberati, le pagnotte di pane, bianco e di buona qualità, furono vendute a prezzo politico, mentre le case di vari esattori famosi per la loro durezza (e per le ricchezze incamerate) furono assalite, ma non fu rubato niente. Il giorno 10 luglio, Masaniello guidava un esercito di 10 000 persone, tra cui migliaia di donne fiere di dimostrare che anch’esse sapevano «prender l’armi e combattere per la Patria ». Mentre il viceré era assediato e impossibilitato a reagire, il duca di Maddaloni mobilitò un gran numero di banditi e assegnò loro il compito di eliminare Masaniello. Tuttavia, un primo attentato fallì miseramente ed ebbe come unico risultato di esasperare ulteriormente la collera popolare. La risposta del leader fu drastica e radicale: il fratello del duca, Peppe Carafa, fu catturato e sgozzato; la sua testa fu innalzata in cima a una picca e portata in trionfo per la città, insieme a un piede del nobile ucciso, famoso in tutta Napoli per le pedate che riservava a coloro che voleva umiliare e punire. Inoltre, Masaniello ordinò che nessuno facesse più uso dei cosiddetti ferraioli, ampi e lunghi mantelli che potevano nascondere archibugi e altre armi.
L’11 luglio,Masaniello radunò una grande folla in una chiesa e lesse le condizioni che voleva imporre al viceré, duca d’Arcos. In sostanza, egli voleva che le imposte tornassero ad essere quelle del tempo di Carlo V, che l’importo esatto fosse scolpito nel marmo e pubblicamente esposto al mercato, in modo che fosse di pubblico dominio e che fosse riconosciuto il diritto di resistenza del popolo: infatti, in caso di violazione di quella prassi tradizionale, il popolo avrebbe potuto ribellarsi contro il governatore, senza incorrere nell’accusa di ribellione contro le autorità costituite. Abbandonata la chiesa, si diresse al palazzo del viceré, che lo accolse con grandi onori, consapevole di non avere alcuna alternativa.
Il duca d’Arcos giurò solennemente di mantenere l’accordo fatto con Masaniello; la cerimonia avvenne il 13 luglio, in duomo, alla presenza dell’arcivescovo, che nei giorni precedenti aveva spesso tentato di mediare tra le parti. Tuttavia, il viceré sperava che il carisma
diMasaniello avesse vita breve: in effetti, le numerose esecuzioni sommarie che il leader popolare aveva autorizzato al fine di mantenere l’ordine irritarono molte persone, che
cominciarono ad accusarlo di essere un tiranno e un pazzo.