La prima bucolica è interamente costruita sul contrasto tra l’angoscia e la malinconia di Melibeo che, esule, ha perso i suoi terreni e la serenità e la tranquillità di Titiro che gode di una vita dominata dall’ozio (lentus in umbra). Essi sono tra di loro in posizione antitetica, e questo si può già evincere ai vv 1-4 dalla opposizione tra il “nos maiestatis” ed il “tu”. Melibeo all’inizio riprende Titiro, poiché lo vede “patulae recubans sub tegmine fagi”; dunque disteso, tranquillo, posato e che segue le sue solite abitudini. Al contrario, Melibeo è costretto ad abbandonare i “dulcia arva”, e con essi quindi la sua patria. “Dulcia” perché per lui sono i campi amati, dolci, gradevoli. Titiro ad ogni modo è perfettamente cosciente che se non ci fosse stato l’intervento di Ottaviano (da lui divinizzato fino a diventare “deus” poi più confidenzialmente definito “iuvenis”) ora si troverebbe nelle stesse situazioni dell’amico. Dunque Melibeo e questo suo stato interiore è esemplificato nel termine “miror”, che vuol dire essere stupiti, è quindi malinconico, attonito, ma anche e soprattutto “aeger”, ovvero afflitto, malato, sia fisicamente sia mentalmente, al contrario considera Titiro colpito da una grande grazia divina, “fortunate senex”. Ed infine Titiro, partecipe del dolore del compagno, gli propone di passare con lui l’ultima notte, in mezzo a quei campi tanto amati. Melibeo frequentemente utilizza parole per sottolineare il suo stato d’animo angosciato e malinconico; Titiro continua per tutta la durata della bucolica ad esaltare e ricordare il magnanimo gesto del “deus iuvenis”, considerandosi fortunato ad avere conservato i suoi “rura”. Titiro e Melibeo rappresentano allegoricamente Virgilio, primo salvo e poi colpito dall’espropio. Roma è la citàà in cui risiede il deus, da cui dipende la città stessa e il destino dei pastori che risiedono nelle campagne.
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