Il primo capitolo de “I Promessi Sposi” è come la rappresentazione generale del seguito del libro; presenta una struttura complessa ed articolata. È ricco di sequenze riflessive e dialogate, in totale sei. Questo capitolo può fungere anche da ouverture (apertura), cioè, nel linguaggio musicale, la prima parte di una composizione, che ne contiene tutti i temi sviluppati durante tutta l’opera intera. Per il primo capitolo succede questo perché contiene i temi principali di tutto il romanzo.
La prima sequenza è molto lunga e lenta, nella quale si presenta la situazione e il luogo in cui si svolgerà la vicenda, cioè la zona del lago di Como. La descrizione è lenta ed approfondita, con la tecnica dello zoom, prima dall’alto al basso e poi, non potendo più scendere, l’autore passa in rassegna gli elementi da sinistra a destra, andando sempre dall’ampio al particolare. La visione che ci rappresenta Manzoni sembra derivare della casa in cui lui passava le vacanze durante l’infanzia.
Poi si cambia luogo e metodo di narrazione. Si passa a una sequenza narrativa. Il ritmo aumenta e, sulle strade della cittadina di Acquate, si incontra il primo vero personaggio: Don Abbondio. L’autore ne fa una rapida descrizione in cui, attraverso nome, stato sociale, movimenti, gesti e atteggiamenti, ne lascia delineare la figura. Infatti il povero curato non è certo una persona coraggiosa. Poi, durante un momento di preghiera, arrivato a un bivio, e direttosi verso una cappelletta, costui incontra due loschi figuri (i bravi), o almeno così si può intendere dal loro atteggiamento. Qui Manzoni ne fa una descrizione dettagliata anche qui dall’alto verso il basso.
Proprio su questi personaggi è incentrata la terza sequenza, cioè una lunga digressione storica sulle grida, le leggi gridate agli angoli delle strade per essere comprese da tutti, contro i bravi. Questa sequenza è chiaramente lenta e presenta anche una prolessi rispetta alla data di ambientazione della vicenda, per far capire che a quel tempo i bravi esistevano ancora.
La quarta sequenza, invece, è narrativa e segna un decisivo balzo in avanti nella storia: infatti è presente il fatto che cambierà la vita e darà il via alle peripezie dei personaggi. Per la prima volta nel libro è presenta un dialogo tra Don Abbondio e appunto i bravi, che con arroganza lo convincono a non celebrare le nozze tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella con la celebre frase: “Questo matrimonio non s’ha da fare” – riga 209.
Finito il dialogo la quinta sequenza (riflessiva) è un’altra digressione, questa volta sui pensieri di Don Abbondio dopo il fatidico incontro. Qui il curato deve far fro0nte a due prospettive diverse: Quella più ampia del sistema sociale in cui vive; Quella profonda del suo mondo interiore.
L’ultima sequenza è ancora dialogata, questa volta il povero curato non parla più con i bravi ma con la persona di cui si fida di più: Perpetua: la sua serva. Questa, al contrario di Don Abbondio, ha un carattere forte e in breve tempo, nonostante le continue negazioni, riesce a farsi raccontare il fatto che stava distruggendo psicologicamente il sacerdote.
Il ritmo come si è potuto capire dall’alternarsi delle sequenze narrative e riflessive è mutevole. Nella prima sequenza, come anche nella terza e nella quinta, il ritmo è pacato e lento ed è solo Manzoni a intervenire. Mentre nelle altre tre il ritmo aumenta ed è molto più veloce, con la presenza anche di scene nella quarta e nell’ultima sequenza.
Il narratore, cioè Manzoni, è in terza persona infatti non partecipa alla vicenda, però è onnisciente, infatti conosce tutto dei personaggi, persino i pensieri, come ad esempio di Don Abbondio dopo il dialogo con i servi di Don Rodrigo.
Il personaggio principale di questo capitolo è Don Abbondio. Il curato entra in scena al tramonto mentre sta facendo le sue orazioni. Dai suoi movimenti Manzoni ci fa capire che Don Abbondio era un uomo che faceva sempre le solite cose e che non si aspetta niente di nuovo da quello che fa. Era un uomo disposto a cedere alla violenza; infatti risponde ai bravi dicendo che per lui celebrare il matrimonio è una pura incombenza (non ne vien nulla in tasca – riga 212). Non dimostra di nutrire nessun affetto nei confronti di Renzo e Lucia, che pur sono da anni suoi parrocchiani (ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, vogliono maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de’ travagli in che mettono un povero galantuomo…). Infatti lui si sente sempre una vittima proprio per questa sua paura. Nel capitolo si possono anche comprendere le cause per cui lui diventi sacerdote: non certo per vocazione. Queste gli sono state dette da giovane dai genitore: appartenere a una classe ricca e poter stare sempre tranquillo. Questa tranquillità si può dire che fosse la filosofia di vita di Don Abbondio mentre il suo “sistema di vita” è una neutralità disarmata: lui stava sempre con il più forte, ma cercava anche di non mettersi proprio contro l’altro, anzi si giustificava dicendo che era colpa sua perché non era abbastanza forte perché lui lo difendesse.
Altri personaggi importanti di questo capitolo sono i bravi, dei quali è fatta una descrizione nella seconda sequenza. Questi i servitori di Don Rodrigo, un signorotto spagnolo innamorato di Lucia, che stava cercando di impedirne il matrimonio con Renzo. Avevano entrambi i baffi arricciati in punta, una cintura lucida di cuoio, e a questa attaccate due pistole; come collana un corno polveroso e, da un taschino dei pantaloni, fuoriusciva un coltellaccio; avevano anche una lunga spada: a prima vista sembravano proprio dei poco di buono. Al tempo di Manzoni, nella prima metà del ‘800, questi erano ormai scomparsi ma nel periodo di ambientazione della vicenda erano molto fiorenti, e l’autore, per verificarne la veridicità, trascrive nel testo alcune “grida” contro questi loschi figuri redatte negli anni precedenti la vicenda, ad eccezione di una, del 1632. Questa prolessi evidenza ancora di più la presenza di questi “bravi”, per assicurare che nel tempo in cui si tratta la vicenda erano ancora presenti in gran numero.
Un altro personaggio di questo capitolo è Perpetua, la serva di Don Abbondio. Era una serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolio e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche (righe 396–402). È chiaramente più forte caratterialmente di Don Abbondio e, per questa sua forza riesce a farsi spiegare dal curato in quale guaio si è cacciato. Un suo difetto però è quello di essere pettegola, infatti è per questo motivo che Don Abbondio, all’inizio, è un po’ restio a raccontarle la verità. Il curato avrà ragione perché sarà proprio lei a raccontare i fattacci in giro.
I temi di questa capitolo saranno poi ripresi in tutto capitolo, essendo questa prima parte come l’ouverture di una composizione musicale. Questi sono l’ingiustizia e l’indegnità morale.
La prima, in questo capitolo, è rivolta ai bravi e a Don Rodrigo, i quali con la forza riescono ad avere ingiustamente ragione del povero e umile curato. Il tema dell’ingiustizia è presente anche nella prima sequenza del capitolo, quella della descrizione del luogo, dove Manzoni fa riferimento, con la sua solita ironia, ai soldati spagnoli che insegnavano la modestia alle fanciulle e alle donne, che accarezzavano le spalle ai mariti e ai padri, e che alleggerivano il lavoro nelle vigne ai contadini. In questi casi infatti sfruttavano ingiustamente il loro potere di colonizzatori.
L’indegnità morale è chiaramente rivolta a Don Abbondio, il quale è un personaggio statico e non varierà il suo carattere durante tutto il romanzo. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare (righe 328-329). Anche con i bravi, temendoli, non è degno di essere chiamato curano (in effetti ha scelto questa strada per avere soldi e una buona posizione sociale), perché non li affronta anzi trasgredisce i suoi compiti e decide di accettare la proposta dei malintenzionati, non sposando i poveri protagonisti di questo romanzo.
La prima parte del capitolo è ambientata ad Acquate, un paesino vicino sul Lago di Como, dove Don Abbondio si recava sempre per le orazioni giornaliere e per essere lasciato in pace: è qui che incontra i bravi. La seconda parte, il dialogo con Perpetua, nella casa del curato a Olate, un paesino della stessa zona, cioè il paese natale di Renzo e Lucia.
Per quanto riguarda il tempo, tutto il capitolo è ambientato nel giorno di Martedì 7 Novembre 1628. Manzoni specifica questa data di inizio del romanzo per dare maggiore veridicità ai fatti ma anche per misurare narrativamente la velocità del racconto (infatti i primi otto capitoli si svolgono tutti completamente nell’arco di quattro giorni, dalla sera del 7 alla notte del 10).
In questo capitolo si incontrano quattro tipi di linguaggio o modi linguistici, uno per ogni personaggio. Il primo, Don Abbondio, parla sempre con intercalari e frasi sospese: anche questo serve per evidenziarne il carattere, infatti, per paura, ha sempre paura a parlare. Il secondo riguarda il primo bravo, quello che parla per la maggior parte del tempo: costui ha un linguaggio diplomatico ma arrogante, per questo riesce a convincere facilmente il docile Don Abbondio. Il terzo tipo di linguaggio si capisce solo grazie all’unica battuta del secondo bravo, che parla sguaiato, minaccioso, grossolano e inserisce alla fine di ogni frase una bella bestemmia. L’ultimo modo linguistico appartiene a Perpetua; la serva di Don Abbondio ha un linguaggio cordiale, semplice ma schietto e in questo riesce a convincere il suo padrone a parlare dell’accaduto.
Il registro usato dai personaggi, ad eccezione di Don Abbondio, è molto basso, quasi rozzo. Il curato, invece, usa un registro alto, inserendo anche delle frasi in latino. Il narratore non ha niente a che fare, per quanto riguarda il registro, usandone uno che i personaggi del suo romanzo gli invidierebbero.
Un registro di linguaggio molto alto è anche usato nella grida, essendo proprio trascritte dall’autore dalle vere leggi custodite a Milano. Quella era infatti la lingua del 1600, che Manzoni imita perfettamente nell’introduzione del romanzo, dando prova di grande studio della lingua italiana.
Nel testo Manzoni usa molte figure retoriche. La più importante è la celebre “ironia manzoniana”, che come ho già detto è presente nella prima parte del capitolo dove l’autore parla dell’ingiustizia dei signorotti spagnoli che insegnavano la modestia alle fanciulle, che accarezzavano le spalle ai mariti e via dicendo… questa è detta “ironia manzoniana”.
Inserisce anche delle litoti (non era nato con un cuor di leone – riga 249), delle metafore (animale senza artigli e senza zanne – riga 251), delle similitudini (come un vaso di terracotta – riga 319) e dei latinismi (parenti – riga 320 – da parens,ntis che in latino significa genitori).