Dante e Beatrice ascendono al terzo cielo, quello di Venere, dove appaiono le anime di coloro che in vita sentirono con particolare intensità l’impulso amoroso, dal quale si lasciarono trascinare al male, finché seppero volgere questa loro inclinazione naturale a nobili azioni. La prima anima che si fa avanti è quella del figlio di Carlo II d’Angiò, Carlo Martello, il quale in vita fu legato a Dante da affettuosa amicizia. Il giovane principe parla delle terre di cui sarebbe diventato sovrano se la morte non lo avesse rapito anzitempo, la Provenza e la regione napoletana. Ricorda che anche la bella Sicilia avrebbe potuto essere uno dei suoi domini se la casata angioina avesse saputo ben governarla e non avesse provocato con la sua mala signoria la rivolta dei Vespri Siciliani. Accenna infine al rapace governo esercitato nel regno di Napoli dal fratello Roberto. A questo punto Dante chiede all’amico di sciogliere un suo dubbio: come è possibile che i figli siano di indole diversa da quella dei padri? I cicli – spiega Carlo Martello – agiscono sulla terra con i loro influssi secondo fini preordinati da Dio, tuttavia diffondono la loro virtù, la loro forza plasmatrice, a caso, senza distinguere l’un dall’altro ostello. Se così non fosse, non esisterebbe tra gli uomini una differenziazione nelle attitudini naturali, nelle indoli di ciascuno. Tale differenziazione è indispensabile perché, essendo l’uomo creato per vivere in un organismo sociale, dove le attività e i compiti da svolgere sono molteplici, occorre che ciascuno sia in grado di ricoprire il suo ufficio. Il discorso di Carlo Martello termina con un amaro rimprovero al mondo, che non rispetta le attitudini naturali dei singoli uomini.
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