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Parafrasi – Canto 8° – Paradiso – Divina Commedia

Il mondo, nel tempo che viveva nell’errore del paganesimo, con pericolo della dannazione eterna, credeva che la bella Venere, volgentesi nel terzo cerchio, ispirasse coi suoi influssi l’amore sensuale; per cui le genti antiche nell’antico errore, non solo facevano sacrifici e preghiere in onore di Venere, ma onoravano anche Dione e Cupido; Dione come sua madre e Cupido come suo figlio, e dicevano che questi sedette in grembo alla regina Didone. E da costei, da cui incomincia questo canto, prendevano i pagani il nome di quel pianeta [Venere] che vagheggia il sole ora di dietro ed ora dinanzi. Io non mi accorsi del salire che facevamo in questo pianeta [di Venere] ma mi fu indizio certo che io vi era già dentro, il vedere la mia donna farsi più bella. E come la favilla si vede scorrere attraverso alla fiamma, e come nella musica si discerne voce da voce, quando l’una si tiene su di una nota e l’altra scorre in diverse modulazioni, così io vidi nella luce di questo pianeta altre anime splendenti muoversi in giro più o meno velocemente, io credo, per la più o meno profonda visione di Dio. Da nube altissima non discesero mai venti o visibili o invisibili, così veloci, i quali non paressero tardi e lenti a chi avesse veduto venire verso di noi quelle anime lucenti lasciando di aggirarsi col pianeta di Venere che riceve il suo primo movimento dagli alti Serafini. E dal mezzo di coloro che apparirono più avanti si udiva cantare Osanna cosi dolcemente che da allora in poi ho sentito sempre il desiderio di riudirlo. Indi una di quelle anime si fece più vicina a noi e incominciò: «Tutti siamo pronti a soddisfare i tuoi desideri, perché tu gioisca di noi. Noi ci volgiamo dentro la medesima orbita, con un medesimo moto circolare, e col medesimo desiderio di tendere all’empireo insieme ai celesti principi ai quali tu già dicesti nel mondo: «O voi intelligente nutrici del terzo cielo», e siamo così pieni di carità che per compiacerti non ci sarà meno dolce del girare, il soffermarci». – Poiché, senza far motto, con uno sguardo pieno di riverenza, ebbi domandato alla mia Donna se ella acconsentiva che io parlassi ed essa mi aveva fatto contento del suo sorriso e certo della sua approvazione; gli occhi miei si rivolsero alla lucente anima che si era offerta a compiacermi, e le dissi con grande affetto: «Deh, chi siete?» Oh, di quale e quanta luce io la vidi accrescere per la nuova letizia che si accrebbe per le mie parole! Divenuta così più luminosa mi disse: [Questi che parla è Carlo Martello che per la morte di Ladislao IV si trovò legittimo erede della corona d’Ungheria. Sposò Clemenza, figlia dell’imperatore Rodolfo di Alemagna e n’ebbe un figlio, Caroberto: strinse amicizia con Dante quando venne, giovinetto, a Firenze. Morì a ventitré anni; vivente ancora suo padre]. «Breve fu il mio soggiorno nella terra e se il viver mio fosse stato più lungo, non sarebbe per accadere nel mondo quel male che accadrà. Il lume della mia beatitudine che mi raggia intorno e mi nasconde come baco da seta chiuso nel bozzolo, mi tiene celato a te. Tu mi amasti assai perché te pure io amai e te ne diedi qualche piccola prova, ma s’io fossi vissuto, ti avrei dato molto più di quelle piccole dimostrazioni d’amore. Quella terra [la Provenza] che dai fiumi riuniti Rodano e Sorga è bagnata sulla sponda sinistra, mi aspettava per suo signore a tempo debito [alla morte del padre]; e per suo signore m’aspettava quella estrema parte d’Italia che ha in sé le città di Bari, Gaeta e Cortona cominciando da quel punto in cui il Tronto e il Verde [ora Liri] sboccano in mare. Già mi splendeva in fronte la corona di quella terra [l’Ungheria] che è irrigata dal Danubio sceso dalla Germania, e la bella Sicilia che fra i due promontori di Pachino e di Peloro, si ricopre di fumo sopra il golfo a [Catania] che dall’Euro, più che da altro vento, è agitato, e ciò non per causa di Tifeo, ma per lo zolfo che vi si forma e che alimenta la fiamma, la Sicilia avrebbe ancora atteso i suoi re, discendenti per mio mezzo di Carlo e da Rodolfo [mediante la mia consorte Clemenza, figlia di Rodolfo]. Se il governo oppressore e tiranno, che sempre contrista i popoli soggetti, non avesse mosso Palermo a gridare: mora, mora [morte ai Francesi; il noto vespro Siciliano], e se mio fratello prevedesse questo, già fuggirebbe da quei Catalani poveri ed avari, affinché non gli nocessero; il che veramente è necessario provvedersi o per lui stesso o per gli altri, affinché ai suoi difetti propri non si aggiunga anche l’avarizia dei suoi ministri. La sua indole che di liberale [da Carlo II, uomo splendido] discese ristretta e misera, avrebbe bisogno di ministri che non fossero bramosi di ricchezze». Io gli dissi: « Perché, o signor mio, io credo che, dove è il principio e il fine di ogni bene, l’alta letizia che m’infondono le tue parole, si veda da te come si vede ed esperimenta da me stesso: questa letizia mi è più grata e questo ancora mi fa piacere, che tu vedi in Dio la verità di ciò che ti dico. Nel modo stesso che mi hai fatto contento, fammi anche istruito, poiché colle tue parole mi hai indotto a dubitare, come possa da buon padre uscir cattivo figlio». Egli mi rispose: «Se mi riesce di farti capire una verità fondamentale, la cosa che ti rimane all’oscuro ti si farà chiara e manifesta. Il sommo bene che volge e contenta tutto il regno dei cieli che tu sali, fa sì che l’attività del cielo tenga le veci della tua provvidenza in questi grandi corpi. E per la predetta attività nella mente divina, non solo sono provvedute, le nature delle cose terrestri, ma insieme ad essi la loro stabilità e la durevolezza. Per lo che tutte quelle cose, sopra le quali quest’attività influisce, vengono dal cielo disposte a certo preveduto fine, come la freccia è diretta al suo scopo. Se ciò non fosse, il cielo che tu percorri produrrebbe i suoi effetti in modo che essi non sarebbero produzioni ma distruzioni. Ma ciò è impossibile perché è impossibile che le intelligenze motrici di queste stelle siano mancanti di attività e che Dio stesso sia mancante quasi che non abbia potuto perfezionare l’attività delle sue creature. Vuoi tu che questa verità ti si chiarisca?» Ed io risposi: «Non occorre, perché vedo essere impossibile che l’attività della natura venga meno nelle cose necessarie». Indi egli seguitò a dire: «Or dimmi: se l’uomo in terra non fosse congiunto agli altri uomini per la legge sociale, non sarebbe peggio per lui?» Io risposi: «Sì, e la ragione è tanto chiara che non te la chiedo». Egli ripigliò: «E può esser nel mondo vera cittadinanza, se la vita di ciascuno non s’impiega esercitando diverse arti necessarie al bene pubblico? No, certamente, se il vostro Maestro [Aristotile] vi dirà il vero». Cosìvenne procedendo di proposizione in proposizione fino a questo punto, poscia concluse: «Dunque conviene che le vostre indoli siano diverse, perché si possano generare diversi affetti. Per la qual cosa uno nasce Solone [uomo adatto a ordinare un codice di leggi convenienti al suo popolo] e un altro nasce Serse [capace di reggere un impero], un altro Melchisedech [atto ad esercitare il sacerdozio] ed un altro nasce come colui [Dedalo] che, volando in cielo, perdette il figlio. La virtù attiva dei cieli circolanti, la quale, come un suggello lascia la sua impressione sulle cera, imprime nei corpi mortali le indoli diverse, fa bene il suo ufficio, ma non dà sempre ai figli l’indole dei padri. Quindi avviene che Esaù nasce d’indole diversa a quella di Giacobbe, e Romolo guerriero nasce da un uomo così vile che si attribuisce a Marte la gloria di averlo generato. Se l’influsso celeste non prevalesse, i figli seguirebbero sempre la natura dei genitori. Ora tu vedi chiaro quel che prima non vedevi; ma affinché tu veda quanto io godo nel vederti soddisfatto, voglio che il tuo intelletto resti chiarito appieno con quello che ti aggiungerò. L’indole umana, se si trova in una condizione di cose che non le conviene, fa sempre cattiva riuscita, come ogni semenza fuori del clima che le conviene. E se gli abitatori del basso mondo prestassero attenzione alle indole spiata dalla virtù dei cieli, seguendo tal naturale inclinazione, avrebbero la gente ben costumata. Ma voi fate seguire il ministero sacerdotale a un tale che nacque inclinato all’esercizio delle armi, e fate re un altro nato piuttosto per viscere delle prediche che per governare i popoli a lui soggetti, ed è per questo che i vostri passi traviano dalla retta strada».

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